Musica improvvisata e sciamanismo siberiano

Tim Hodgkinson

Il metodo impossibile

Pur azzardando qualche conclusione generale, questo articolo è basato quasi esclusivamente sull’esperienza personale mia e di Ken Hyder nella musica improvvisata. Lavoriamo insieme dal 1979: eravamo vicini di casa in un quartiere della parte sud di Londra e ci siamo conosciuti perché ci interessavamo entrambi di politica comunitaria e iniziativa culturale; presto abbiamo scoperto che avevamo in comune anche il gusto della discussione. Sapendo che la musica improvvisata è spesso imperniata sulla sfida costante di combinazioni insolite tra musicisti, ci siamo mossi nella direzione opposta impegnandoci in un progetto di duo a lunga scadenza.

In tutti gli anni passati a suonare e discutere e discutere e suonare, ci siamo posti soprattutto due domande. La prima vale per qualsiasi duo permanente d’improvvisazione: che cosa si può trasferire da una seduta alla successiva senza compromettere il carattere improvvisativo della musica? Se improvvisando insieme si usano regole consce o inconsce, si possono ottenere costantemente buoni risultati senza ripetersi?

La seconda domanda era forse più specificamente rivolta a noi e a una certa prospettiva "sociale" che condividevamo: quale rilevanza andava attribuita (ammesso che ne andasse attribuita una) al linguaggio soggettivo adottato dagli improvvisatori? Malgrado le più recenti tendenze analitiche nel campo dell’improvvisazione, il linguaggio usato dai musicisti è tuttora profondamente influenzato da una sottocultura free jazz con un’articolazione tipicamente anni sessanta, all’interno della quale le idee di spontaneità e magia rivestono un ruolo importante. Perciò l’esibizione è un momento particolare: i normali processi razionali interferirebbero con essa. Il linguaggio della soggettività adottato dai musicisti fa da schermo contro tale interferenza. Ma potrebbe anche essere considerato un modo di rendere esplicito il parallelo tra pratica improvvisativa e certi tipi di esperienza religiosa.

"Quando (un profeta) è ispirato perde conoscenza; il pensiero svanisce e abbandona la fortezza dell’anima; ma lo spirito divino vi si è introdotto e vi ha preso dimora; e ciò farà risuonare tutti i suoi organi perché l’uomo possa esprimere chiaramente ciò che gli suggerisce lo spirito".[1];.

L’approfondimento di quel parallelo ci riportava alla nostra prima domanda. Sembrava che la qualità che cercavamo nell’improvvisazione non derivasse dalla tecnica musicale in quanto tale ma piuttosto da un qualche genere di meta-abilità: la capacità di attingere istantaneamente da una gamma di tecniche in grado di soddisfare le precise richieste del momento. C’entrava dunque in qualche modo lo stato mentale dei musicisti?

Avevamo già incominciato a concentrare la nostra attenzione su stati mentali e preparazioni psicologiche quando mi ricordai ciò che avevo letto sullo sciamanismo durante i miei studi di antropologia. Ricordavo due cose importanti: l’importanza attribuita alla fase preparatoria della cerimonia sciamanica e il fatto che tali cerimonie seguivano sì una sequenza non rigida di fasi identificabili ma erano in larga parte improvvisate.

Da quell’interesse iniziale per lo sciamanismo come rappresentazione seguì l’adozione da parte nostra dell’accezione ristretta (anziché di quella più ampia e new age) del termine sciamanismo. Per il modo in cui lo intendevamo noi, lo sciamanismo è un insieme specifico di credenze e di pratiche nell’ambito delle quali un individuo diventa sciamano, spesso dopo una malattia e una crisi psicologica, e quindi sciamanizza, ovvero comunica con il mondo dello spirito per conto degli altri membri della comunità, rappresentando parzialmente la propria crisi come in uno spettacolo teatrale, nel corso del quale fa generalmente uso di percussioni e vocalizzi. Le rappresentazioni sciamaniche posseggono una dimensione soggettiva e improvvisativa molto più forte che la maggior parte dei riti religiosi. Inoltre, per rientrare nella particolare condizione psicologica richiesta, lo sciamano deve predisporsi liberandosi, per così dire, della propria normale personalità di tutti i giorni.

L’accezione più ampia – secondo cui lo sciamanismo è qualsiasi attività che implichi un contatto diretto con il mondo spirituale – ci sembrava, e ci sembra tuttora, assai meno valida. Perciò, in quest’articolo, userò le parole sciamano, sciamanico, sciamanizzare (e così via) nell’accezione ristretta; di conseguenza, l’insieme di credenze e di pratiche a cui farò riferimento sono in gran parte limitate alla cultura siberiana e ad altre dell’estremo nord.

Dopo le letture e discussioni sullo sciamanismo, incominciammo ad adottare un rito preparatorio prima dei nostri concerti di musica improvvisata. Chiedevamo di essere lasciati soli per breve tempo in un camerino. Per prima cosa stavamo in silenzio, al buio, lasciando che le nostre menti si svuotassero di tutte le chiacchiere relative ai preparativi pratici del concerto. Occorre precisare ai lettori non musicisti che i preparativi di un concerto comportano spesso la necessità di destreggiarsi fin quasi all’ultimo minuto tra un’enorme quantità di dettagli d’ogni genere. Le luci sono giuste? Il microfono è a portata di mano? È mai possibile che in questo teatro non si riesca a trovare una sedia? Non c’è altro posto in cui mettere quel cavo, in modo che non ci inciampiamo? Ci sembrava auspicabile entrare in una disposizione mentale totalmente diversa, subito prima di suonare. Ci pareva che far seguire alla fase di intensa concentrazione sui preparativi pratici un periodo di silenzio in uno spazio chiuso e buio fosse un modo di dare forma a quel cambiamento. Era come se il più intenso brusio mentale dei preparativi del concerto rappresentasse il brusio mentale della vita quotidiana in generale, cosicché entrando nel silenzio che precedeva il nostro concerto mettevamo a tacere la voce interiore che sostiene la personalità di tutti i giorni. Rompevamo il silenzio molto gradualmente, prima con suoni fievoli (per esempio il respiro) e poi intensificando via via rumori e movimenti; ci aggiravamo per la stanza intralciandoci a vicenda e di proposito con sedie e altri oggetti: in tal modo dovevamo adoperare i nostri sensi per figurarci lo spazio circostante, ascoltando i suoni degli oggetti che si spostavano sul pavimento e cercando di individuare dove si trovassero. L’effetto desiderato era il disorientamento. Se tutt’a un tratto qualcuno ci bendasse e ci portasse via in automobile per poi rilasciarci in un ambiente estraneo, saremmo costretti a impiegare tutti i nostri sensi per cercar di capire dove siamo finiti. Dopo quel procedimento per aguzzare i sensi ci sentivamo molto liberati e, una volta sul palcoscenico, avevamo l’impressione di poter fare qualsiasi cosa: eravamo concentrati; le nostre reazioni erano più pronte e di conseguenza la nostra musica diveniva migliore e più coerente, almeno dal nostro punto di vista[2].

In Siberia

Contemporaneamente all’applicazione di quelle idee alle nostre esibizioni, cominciammo a sentire impellente la curiosità di sapere quale suono avessero realmente le pratiche sciamaniche. Tali pratiche non coinvolgono solo preparazione e improvvisazione ma anche musica. Avevamo letto descrizioni etnografiche di quei fenomeni fornite da studiosi come Czaplicka e Jochelson, che parlavano dello straordinario uso delle percussioni e della voce da parte degli sciamani, ma ci sembrava molto improbabile che riuscissimo ad ascoltare effettivamente qualcosa.

Grazie a un eccezionale colpo di fortuna, nel 1989 conobbi a Mosca Boris Podkosov di Habarovsk (sull’estremo margine orientale dell’Unione Sovietica) e in seguito a quell’incontro avemmo occasione di compiere diversi viaggi in Siberia per suonare musica improvvisata, conoscere sciamani e conversare con loro nelle repubbliche autonome di Buriati e di Tuva, e anche di visitare brevemente la repubblica autonoma di Iacuzia. Tutto ciò dipese da un formidabile insieme di circostanze, tra le quali la rapida liberalizzazione dell’Unione Sovietica – con il conseguente moltiplicarsi di nazionalismi culturali ed etnici in Siberia, particolarmente interessati al recupero e al mantenimento delle antiche tradizioni – e la nascita di una rete di impresari musicali indipendenti in luogo del vecchio monopolio statale.

Esiste una qualità che definisce la musica sciamanica? Prima di andare in Siberia credevamo di sì e immaginavamo che fosse legata alla scansione musicale del tempo. Tra tutti i generi di musica con cui eravamo venuti a contatto, la musica sciamanica pareva l’unica il cui tempo variasse costantemente. Ciò la distingueva dalla musica di trance o possessione (caratterizzata dal graduale raggiungimento del culmine di velocità e volume) e anche dalle musiche non sciamaniche dei popoli di cultura sciamanica, che hanno la caratteristica di conformarsi al modello a tempo costante di quasi tutte le musiche folk.

Notammo anche che gli accenti prodotti da uno sciamano mentre suona il tamburo non seguivano alcuno schema chiaramente individuabile. Per la verità, a Novosibirsk parlammo con un musicologo il quale cercò di convincerci che gli sciamani, mentre suonano, variano deliberatamente e costantemente il metro da tredici a sette a nove e così via. Ma ci parve un’ipotesi assai poco verosimile e le successive conversazioni con sciamani confermarono la nostra impressione che, percuotendo il tamburo durante il rito, usassero liberamente gli accenti.

Insomma, perché nella musica degli sciamani il tempo variava costantemente? Eravamo giunti sul campo con un’idea in proposito ma ci trovammo costretti ad abbandonarla. Credevamo che durante il rito sciamanico la musica avesse la funzione preminente di disorientare gli ascoltatori e i partecipanti con costanti fluttuazioni del tempo. L’idea doveva molto al lavoro svolto negli anni sessanta da Robert Ornstein sull’esperienza temporale; Ornstein aveva dimostrato l’esistenza di una connessione tra l’esperienza della durata temporale e il modo in cui gli eventi vengono percepiti, raggruppati e immagazzinati come informazione. Ci pareva che se l’unità di raggruppamento fosse stata permanentemente instabile – come una musica dal tempo costantemente variabile – i sistemi consueti di ordinaria elaborazione dell’informazione ne sarebbero stati generalmente disturbati e il soggetto sarebbe così divenuto via via più suggestionabile psicologicamente. Si sarebbe dunque potuto ipotizzare che la mutevolezza del tempo fosse una tecnica dello sciamano per avviare il pubblico alle successive identificazioni psicologiche con gli spiriti che avrebbe incontrato nel corso del viaggio sciamanico.

Il materiale su cui basavamo tale interpretazione era estremamente scarso. A quel tempo possedevamo soltanto due registrazioni di autentici riti sciamanici e le notizie che avevamo sulla sopravvivenza dello sciamanismo in Siberia ci rendevano pessimisti sulle possibilità di procurarci altra documentazione.

Recarsi sul campo fu importante non solo per raccogliere nuove informazioni ma anche per mettere in discussione il modo di interpretarle. Inevitabilmente, sentendo come le persone parlavano di sciamanismo, l’importanza del loro linguaggio descrittivo ci apparve sempre più lampante e parallelamente si affievolì la fiducia nel nostro apparato analitico.

Da artisti occidentali, avevamo immaginato che i riti sciamanici avessero qualche evidente punto di contatto con la pratica occidentale dell’arte. Pur senza volerlo, avevamo tentato di piegare lo sciamanismo a categorie analitiche prossime a quelle dell’analisi estetica e musicologica di una rappresentazione artistica. Di conseguenza, cercavamo tecniche artistiche e credevamo che il disorientamento ritmico fosse una di esse.

Tuttavia, dopo la discussione con gli officianti, ci risultò evidente che lo scopo principale della fluttuazione del tempo nei rituali sciamanici non è indurre nel pubblico un effetto calcolato. Scoprimmo che la pratica sciamanica implica un’interazione tra l’attività percussiva (che produce uno stimolo sensoriale) e una sequenza di stati psicologici che avviene nella mente dello sciamano. Tali stati vengono senza dubbio provocati, se non addirittura regolati, dai cambiamenti di tempo e d’intensità dell’attività percussiva. Ma quell’attività non ha lo scopo di riprodurre nel pubblico quella medesima dinamica psicologica. Quindi, descrivere la pratica sciamanica come spettacolo, esibizione o rappresentazione è fuorviante. La differenza con il teatro o la musica occidentali diventa ancor più netta quando più persone assumano contemporaneamente il ruolo di sciamano, come talvolta accade. In quelle occasioni, ogni soggetto percorre la propria sequenza psicologica, e la coordinazione degli stati psicologici, e quindi dell’andamento percussivo, è eccezionale. Senza dubbio non esiste alcun senso di responsabilità collettiva anche se la "musica" è prodotta collettivamente.

Insomma, che cosa succede esattamente quando un individuo impegnato in una pratica sciamanica accelera e rallenta il tempo delle percussioni?

"Un compositore non può farlo; quando si è sopraffatti da quei sentimenti, si manifesta una melodia o un ritmo per aiutarci a esprimere quel sentimento. Non esistono regole; sta nella natura stessa della persona. Ma non di una persona comune: lo sciamano non è una persona comune. La forma del rito dipende dalla persona che lo celebra".[3].

Molti officianti ci hanno detto che l’attività sciamanica richiede di seguire le proprie emozioni. Abbiamo anche ascoltato una gran quantità di descrizioni visive delle fasi psicologiche. Come dire che, a quanto sembra, la pratica sciamanica coinvolge quasi invariabilmente l’atto di vedere. Durante un colloquio con Alexander Salchak – un attore che recita abitualmente parti di sciamano nei teatri di Tuva – gli abbiamo chiesto se gli sia mai capitato che qualcuno lo prendesse per un vero sciamano e lo invitasse a casa propria perché officiasse un rito sciamanico; la sua risposta è stata: "Un vero sciamano deve avere una visione interiore. Io non vedo e perciò mi rifiuto".

Si sarebbe perciò tentati di congetturare che l’attività percussiva sia uno strumento psicologico atto a modificare il sostrato energetico delle immagini visive a valenza emotiva e/o semantica che si presentano nella mente dello sciamano. Ma ancora una volta si correrebbe il rischio di importare categorie occidentali improprie, con l’unica differenza che questa volta lo sciamanismo verrebbe assimilato alla psicologia anziché all’arte.

È vero che alcuni sciamani siberiani ci hanno indicato un’equivalenza tra sciamanismo e psicologia occidentale. Tuttavia, sospetto che concorderebbero sull’imprescindibilità della distinzione che segue: lo psicologo mantiene professionalmente un controllo consapevole unitario e continuo, che le procedure della psicologia non mettono mai in discussione; anche se sarebbe certamente scorretto negare a priori che lo sciamano eserciti una qualche forma di controllo consapevole, è chiaro che la consapevolezza in gioco non è unitaria né continua (e non è previsto che lo sia) nel senso di quella dello psicologo.

L’importante è evitare di assimilare i metodi dello sciamano a un’idea occidentale di tecniche o strumenti, non importa se artistici o psicologici. Ci fu suggerito che il modo di agire dello sciamano è in qualche modo affine a una negoziazione tra aspetti volontari e involontari della cognizione. La pratica sciamanica è intesa a fornire un canale a un’energia che non risiede solo nello sciamano. Ay-Churek, uno sciamano in attività a Tuva, ci disse: Do energia alle persone tramite il tamburo ma ricevo energia dagli spiriti".

Misticismo in musica

Abbiamo scoperto che non è facile inscrivere i metodi dello sciamanismo nella mappa tradizionale della pratica musicale occidentale e delle sue priorità estetiche. Non possiamo trattare lo sciamanismo come una descrizione simbolica di processi che avrebbero senso soltanto in una prospettiva totalmente diversa.

A questo punto, vorrei soffermarmi sui due distinti approcci della musica occidentale al misticismo[4]. Nel primo, il contenuto della credenza mistica viene accolto dalla musica come contenuto proprio. Esiste un momento, nel processo del fare musica, in cui le credenze metafisiche vengono codificate nella musica in modo tale che all’interno del prodotto finito la loro presenza sarà manifesta e significativa per il compositore. Vale a dire che la musica consisterà interamente o parzialmente nella rappresentazione o nella trasmissione di un rito o di una struttura metafisica. Gli esempi più chiari di tale approccio si trovano in quei compositori occidentali come Olivier Messiaen, che hanno codificato strutture metafisiche nelle proprie opere.

Il secondo tipo di misticismo interviene principalmente nel procedimento produttivo in quanto procedimento. Se per rito intendiamo "un’attività organizzata il cui significato deriva da considerazioni metafisiche", allora stiamo parlando dell’intervento del rito in una qualche dimensione del fare musica.

Tale distinzione può adesso accogliere molte dimensioni ulteriori. Innanzi tutto, la stessa esperienza mistica si orienta nel primo caso verso una rivelazione dell’ordine divino e nel secondo verso il contatto diretto con una forza o un essere spirituale; la differenza è che nel primo caso può fornire un contenuto integrabile in discorsi razionali, mentre nel secondo può essere assai più dirompente. Ma se assumiamo una prospettiva antropologica molto ampia, la situazione appare leggermente diversa. Ciò che sarebbe dirompente in una società agricola statica con clero gerarchizzato è normale in una comunità di pastori o cacciatori in cui tutti gli sciamani sono allo stesso livello. Quando Messiaen adopera tre accordi solenni per simbolizzare la Santa Trinità non pare compromettere la propria struttura musicale; anzi, aderisce a una tradizione antica e un tempo molto importante della musica occidentale che risale alle forme musicali del Rinascimento e, ancora prima, alla teoria pitagorica dell’armonia cosmica, che Pitagora aveva a sua volta ereditato dalle prime società agricole stabili.

D’altra parte, Albert Ayler (parlerò qui della musica di Ayler piuttosto che della nostra) pare in stato di estasi quando trae un lamento funebre dal sassofono e la musica che suona sembra appartenere a un mondo in cui l’esperienza spirituale diretta è una possibilità reale. Ayler accoglie direttamente la dimensione mistica nel procedimento musicale, che è visibile e udibile perché avviene proprio lì, di fronte al pubblico o al microfono.

Certamente è possibile difendere l’uno o l’altro approccio e per amor di polemica potrei sostenere che Messiaen avrebbe considerato inferiore la musica di Ayler perché funzionale, ovvero organizzata su priorità che si potrebbero non ritenere propriamente musicali. Ma la storia – almeno quella – richiede che si vada oltre quella posizione. Le idee, le interpretazioni del mondo, i mondi percettivi esistono in relazione a comunità umane reali collocate in punti precisi del tempo e dello spazio. Il mondo occidentale si impone inesorabilmente su tutti gli altri mondi umani di questo pianeta. Come individui, non siamo in grado di modificare tale processo. Ma possiamo incidere su ciò che è questo nostro mondo, possiamo far sì che l’attrito che dovrebbe avvenire tra i mondi avvenga veramente e che gli altri mondi non siano semplicemente ridotti al silenzio.

Dal punto di vista della società razionale e tecnologica, sia la gerarchia cosmica che ispira Messiaen sia l’estasi sciamanica che ispira Ayler non sono altro che superstizioni irrazionali. Ma entrambi i tipi di misticismo sono strumenti che possono consentire a una cultura musicale che si rivolge a un pubblico occidentale di riconoscere altri mondi che si trovano fuori dai confini della supremazia razionale occidentale. L’importante è che l’attrito sia reale, che le superfici che vengono a contatto non siano scisse dalle loro radici nella vita sociale e che perciò quell’attrito tra diverse culture musicali vada fino in fondo (anziché limitarsi a mescolare superficialmente le differenze). Solo così possiamo evitare una world music impressionistica come quella prodotta attualmente da alcuni dei nostri contemporanei più sconsiderati.

Per la verità, sia Messiaen sia Ayler si impegnavano in procedimenti complessi che contemplavano l’interazione tra differenti modalità di codifica e di trasmissione dell’informazione. Il misticismo è uno dei livelli o fasi che possono intervenire in quei processi. Se per un compositore quell’intervento può essere un modo per focalizzare il lavoro compositivo, per un improvvisatore può essere un modo per catalizzare la pratica improvvisativa. La differenza è che nella musica improvvisata la musica nasce durante l’esibizione e l’intervento avviene perciò all’interno dell’esibizione o intorno a essa.

Quella che ho chiamato sopra "mappa tradizionale della musica occidentale" non ha mai accettato esplicitamente la mediazione tra aspetti cognitivi volontari e involontari di cui è invece innervato lo sciamanismo siberiano. Ma tale dimensione fa certamente parte del procedimento creativo di qualsiasi genere di musica.

Forse si può trovare un indizio nella direzione che segue: anche se avevamo commesso l’errore di usare troppo le coordinate della musica occidentale per inquadrare la musica sciamanica, alla fine ricavammo qualcosa da quell’esperienza e l’applicammo alla nostra musica. Ciò che prendemmo aveva a che fare con la relazione strettissima che la filosofia sciamanica stabilisce tra l’ambiente naturale e gli stati interiori dell’essere di una persona. Nelle culture sciamaniche ascoltare un suono naturale e divenire consapevoli di stati psicologici interiori sono due azioni intimamente collegate.

Il tipo di ascolto in questione è del tutto differente dalla sensibilità astratta verso la natura di cui si trovano alcune varianti nel classicismo o nel romanticismo occidentali. È un tipo di ascolto che deriva dalla presenza diretta dell’ascoltatore nella natura, in quanto persona che ha bisogno di poter afferrare ogni dettaglio dei suoni naturali per sopravvivere. Ciò significa che l’organizzazione del suono naturale è parte integrante dell’estetica musicale delle culture sciamaniche. Quando suonammo con alcuni musicisti della Iacuzia, scoprimmo che il loro approccio estetico consentiva loro di applicare senza difficoltà alla propria musica le irregolarità della natura. Inversamente, è un assioma dell’estetica musicale occidentale distinguere il suono musicale dal rumore, non solo mediante la regolarità di vibrazione delle note musicali ma, più significativamente, mediante la regolarità delle relazioni tra le note musicali.

Immaginiamo per un istante che la mappa della musica occidentale sia una mappa della mente occidentale e che rifletta un ordine riduttivo, un’imposizione della coscienza su tutta la sostanza della vita umana e una tendenza a sostituire al tutto i contenuti necessariamente selettivi e parziali di tale coscienza. Adesso immaginiamo che quella mappa si trasformi, annettendo la configurazione naturale del terreno. La vecchia mappa non avrebbe mai potuto tenere conto del vento, degli uccelli e delle cascate, che semplicemente non scelgono di suonare su tonalità e ritmi riconosciuti. Eppure, nell’ambito di una passeggiata in campagna quei suoni naturali e le loro relazioni acustiche e temporali paiono suggerire schemi che a loro volta si associano a mutamenti nel modo in cui la coscienza diviene consapevole della sfaccettata totalità della mente umana.

A conti fatti, il modo migliore per integrare la nostra esperienza siberiana nel prosieguo del nostro lavoro qui e ora è il contatto con quelle correnti della musica contemporanea radicalmente indirizzate verso tali questioni di organizzazione acustica e psicologica.

(Da "Musicworks", n. 66, autunno 1996 traduzione di Cristiana Borella


Post scriptum
Dato che ho scritto quest’articolo più di due anni fa e lo guardo oggi con occhi da estraneo, vorrei precisare il mio attuale punto di vista su alcune questioni.

Per quel che concerne la disposizione mentale dei jazzisti (e di alcuni altri musicisti): anche se resto dell’idea che non vada ignorato il contenuto mistificatorio presente nelle espressioni idiomatiche spontanee, credo adesso di essere stato fin troppo generoso nel riconoscere un significato oggettivo al soggettivismo del discorso jazz. Riferito all’atto di suonare, il concetto di "stato mentale" è una reificazione: è l’attività a produrre lo stato mentale e non il contrario. Se ciò è vero, l’introduzione di un discorso psicologico non fa altro che legittimare su un altro piano abitudini e limiti stilistici che andrebbero invece sottoposti a critica insieme a tutto il resto.

Se, in generale, pare che un certo grado di automistificazione sia funzionale alla produzione artistica (vedi Sun Ra, Boulez e altri), nel senso che la costruzione non può che venire prima di qualsiasi cosa, nel campo particolare dell’improvvisazione la componente critica deve ovviamente balzare in primo piano; sta lì la differenza tra la distribuzione di elementi nel tempo e la musica che realmente si dipana nel tempo.

Anche se a mio avviso alcuni aspetti del mio lavoro con Ken Hyder hanno tratto giovamento dall’adozione del discorso dello sciamanismo, non mi sentirei di estendere tale procedimento al di fuori di quel duo, perché parallelamente ha anche dato adito a una certa pigrizia e mancanza di rigore portandoci ad acquisire e rafforzare vicendevolmente abitudini e riferimenti stilistici all’interno delle nostre improvvisazioni. Quel duo e l’idea dell’improvvisazione musicale sciamanica sono per me interdipendenti e formano insieme uno specifico progetto di sperimentazione. Tale progetto arricchisce tutta la mia vita musicale in un modo che al momento non saprei spiegare chiaramente, senza però rappresentare una soluzione generalizzabile.

È forse interessante aggiungere che nel novembre scorso io e Ken abbiamo incominciato a impegnarci molto più a fondo in un’idea di mutamento continuo da cui potrebbe derivare l’abbandono degli elementi stilistici che finora hanno forse tenuto nascoste le più grandi potenzialità del duo.

Tim Hodgkinson, fine dicembre 1996


note

[1] Filone, primo secolo d.C., citato da Jaynes (vedi bibliografia) [vai]
[2] Esistono innumerevoli esempi di ritualizzazione del concerto nel mondo della musica classica: si pensi solo a Glenn Gould che si riscaldava i gomiti o a Furtwängler che immancabilmente rifiutava di provare nel giorno in cui doveva eseguire la Nona. [vai]
[3] Sono parole di uno sciamano di Tuva. [vai]
[4] Il misticismo ci rinvia a regioni metafisiche, ossia a tipi di organizzazione e di esperienza che sono solo impliciti nella struttura della realtà fisica conosciuta. È tipico del discorso mistico non fornire né considerare auspicabile una spiegazione valida dell’una nei termini dell’altra. Vale a dire che il misticismo non solo accetta ma spesso preferisce che il proprio contenuto sia fondamentalmente misterioso. Quando ciò viene espresso come un discorso pseudorazionale, diventa l’equivalente di una reificazione dei limiti della ragione e come tale non fa altro che fornire argomenti al predominio storico del razionalismo. Se invece viene espresso per collocare la ragione all’interno della natura, nell’ecologia della mente, può essere inteso come razionale in un senso più ampio. [vai]


bibliografia

  • CZAPLICKA, Aboriginal Siberia, Oxford, Clarendon Press, 1914, p. 235
  • JOCHELSON, W., Religion & Myths of the Koryaks, p. 49
  • ORNSTEIN, ROBERT E., On the Experience of Time, Harmondsworth, Penguin, 1969
  • JAYNES, JULIAN, The Origin of Consciousness in the Breakdown of the Bicameral Mind, Boston, Houghton Mifflin, 1977 (tr. it. di Libero Sosio, Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza, Milano, Adelphi, 1984)
  • "musiche" ha pubblicato due interventi di Ken Hyder sugli stessi argomenti dell’articolo di Hodgkinson: "Alla ricerca dello spirito" sul n. 10 (estate 1991) e "Spirit Music" sul n. 15 (primavera-estate 1994).