La natura olistica della musica

Francesca Noceti

La musica è un'espressione comune a tutti i popoli. Ma anche gli animali cantano e comunicano con il linguaggio musicale. Proprio di questa universalità della musica come mezzo di espressione e comunicazione in e tra le specie si occupa Patricia Gray, del National Musical Arts (National Academy of Sciences, Washington, USA). Gray discute le numerose analogie riscontrabili tra composizioni umane e animali in un articolo recentemente pubblicato su Science. In un altro articolo apparso sullo stesso numero del settimanale scientifico, Mark Jude Tramo, del Dipartimento di neurologia della Harvard Medical School di Boston, affronta la questione della "competenza musicale" comune a tutti gli individui partendo dalla neurofisiologia.

Patricia Gray espone uno studio comparato dei linguaggi musicali dell’uomo, degli uccelli e delle balene. Quando gli uccelli compongono le loro canzoni spesso usano le stesse variazioni ritmiche e le stesse relazioni tra note impiegate dai musicisti: questo potrebbe spiegare in parte il gusto musicale dell'uomo, che da sempre ascolta e trae ispirazione dai suoni della natura.

Ma la spiegazione basata sulla predisposizione dell'uomo all'imitazione è solo parziale. E non giustifica le analogie tra la musica umana e il canto delle balene che, pur noto da millenni alle tribù dei Tlingit e degli Inuit, è stato registrato per la prima volta negli anni quaranta. Difficilmente queste sonorità possono aver influenzato la cultura musicale dei popoli distribuiti sulla superficie terrestre. Dall'analisi del canto delle megattere emergono molti punti di contatto tra le modalità compositive dei grandi cetacei e quelle dell’uomo. Il ritmi, l'uso degli intervalli e delle frasi musicali, la ripetizione dei temi, la struttura delle composizioni sono spesso familiari all'orecchio umano. Anche la lunghezza complessiva delle canzoni assimila questa musica a quella di produzione umana, forse perché le balene, come gli esseri umani, hanno una corteccia cerebrale molto sviluppata, e quindi, secondo Gray, il loro periodo di attenzione assomiglia a quello dell’Homo sapiens.

Esplorando le tradizioni vocali e strumentali degli animali e dell’uomo dalla preistoria a oggi, Gray identifica un percorso evolutivo musicale comune a tutte le specie. Nell’uomo la conoscenza musicale è acquisita in parte tramite l’interiorizzazione di schemi ripetuti che, memorizzati e riconoscibili, contribuiscono a creare tradizioni che si tramandano da genitori a figli, dagli adulti ai giovani, e tra i membri coetanei di uno stesso gruppo e di gruppi diversi. Questo processo di apprendimento e trasmissione del materiale musicale è comune all’uomo, alle balene e agli uccelli. Se la musica dell’uomo e quella dei cetacei hanno così tanto in comune, forse, come suggerisce Gray, è stata la musica a impadronirsi dell’uomo, e non l’uomo a inventare la musica. Avrebbe dunque senso, aggiunge Gray, parlare di una sorta di platonismo musicale, secondo il quale esisterebbe una musica universale che sottende tutte le musiche, di tutti i tempi e di tutte le specie.

L’articolo di Mark Jude Tramo affronta la questione musicale dal punto di vista neurofisiologico e cognitivo. Partendo dalla constatazione che la competenza musicale, cioè la capacità di distinguere tra intervalli consonanti e dissonanti, compare nei bambini fin dai primi mesi di vita, Tramo afferma che il cervello umano possiede la qualità innata di estrarre le regolarità di tempi e frequenze tipiche della musica. Si tratterebbe di una conseguenza diretta della conformazione anatomica delle vie uditive, che si sono evolute negli animali per la comunicazione e per l’identificazione delle sorgenti sonore. Orecchio e cervello sarebbero dunque naturalmente sintonizzati su quei suoni che l’uomo definisce piacevoli, e che sono comuni a molte culture.

L’insieme dei fenomeni percettivi e cognitivi implicati nell’elaborazione del messaggio musicale è estremamente complesso. Tanto complesso da non permettere l’identificazione di alcuna struttura cerebrale privilegiata definibile come centro della musica. Nonostante il fatto che il destro sia tradizionalmente considerato l’emisfero musicale, gli studi condotti su pazienti cerebrolesi e i dati di imaging funzionale hanno dimostrato che la percezione della musica emerge dall’intreccio di percorsi neurali in entrambi gli emisferi. La corteccia uditiva destra è essenziale alla percezione della tonalità del suono e di alcuni elementi melodici, armonici, timbrici e ritmici. Ma sono coinvolte anche la corteccia uditiva secondaria sinistra e le aree motorie della corteccia frontale, che si attivano per esempio quando si batte il ritmo con una mano sul bracciolo di una sedia. Ritmi regolari e irregolari stimolano differenti regioni corticali e cerebellari. La corteccia uditiva è poi connessa con la zona mediale della corteccia temporale destra, con la porzione posteriore del giro del cingolo sinistro, e con la corteccia orbitofrontale destra, che rilevano le differenze estetiche tra i suoni.

La conoscenza degli schemi musicali umani e animali, e dei processi neurocognitivi connessi all’elaborazione della musica non sono però sufficienti a spiegarne in maniera definitiva la potenza evocativa ed emozionale. "Tale impenetrabile vaghezza sembra indicare che le radici della musica risalgano al nostro antico cervello di lucertole, più che alla corteccia" afferma Gray; "e che la musica abbia un’origine addirittura più remota del linguaggio"